“L’occupazione israeliana non è soltanto una questione politica, è anche un problema di salute mentale. L’ingiustizia, le umiliazioni quotidiane e i traumi, di cui ciascun palestinese fa esperienza, feriscono ripetutamente la psiche individuale e collettiva del mio popolo” scrive Samah Jabr in ‘Da Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione’.
In queste ore si stanno verificando degli attacchi militari pesantissimi da parte di Turchia e Israele contro la popolazione di due terre da sempre martoriate perché oggetto di interessi economici e coloniali, il Rojava (la parte del Kurdistan nella Siria del nord ovest) e la Palestina.
All’ultima edizione di Contatto tenutasi in Cascina Torchiera a Milano, nel maggio scorso, tra i diversi tavoli che affrontavano le tematiche della salute mentale intrecciate inevitabilmente con vicende sociali, politiche, economiche, abbiamo organizzato un tavolo dal titolo “Oltre i confini: trauma, conflitti e cura solidale”. Al tavolo hanno partecipato, tra gli altri, una rappresentante del Comitato sanitario del Partito Democratico dei Popoli (Hdp, maggior partito di rappresentanza dei curdi in Turchia) e Samah Jabr, presidente dell’Unità di Salute Mentale del Ministero della Salute Palestinese.
La Brigata Basaglia si occupa di salute mentale da un punto di vista pragmatico e clinico-sociale ma anche, e soprattutto, da un punto di vista politico e critico del sistema strutturale in cui viviamo tutti noi come popolazione mondiale.
Rivendichiamo la convinzione che il rispetto delle persone da parte, in primo luogo, dei governi e degli Stati, il rispetto dei loro diritti umani e il rispetto delle terre, dei territori in cui vivono, della natura, comprese piante, animali e paesaggi, è condizione imprescindibile per la loro salute fisica e mentale.
Lo stato di guerra e di occupazione militare che esiste in diverse parti del mondo lascia tracce e ferite nei corpi e nelle menti di chi ne subisce la violenza generando un senso di impotenza, oppressione, rabbia repressa, annichilimento.
Il popolo curdo e quello palestinese sanno bene cosa vuol dire subire la sopraffazione di Stati che occupano militarmente e culturalmente le terre in cui vivono, cosa vuol dire subire prevaricazioni, arresti, torture, omicidi, espulsioni forzate dalle proprie terre, la dolorosa separazione dai propri cari. Sono segni di sofferenza che si tramandano da generazione in generazione e che rimangono impressi nella memoria collettiva. I danni alla salute mentale di adulti, ma soprattutto adolescenti e bambin3, sono devastanti e implicano una presa in cura che a volte non trova ‘guarigione’ neanche dopo anni di terapia. Perché un colloquio psicologico o una pillola di psicofarmaco non riporterà in vita un familiare ucciso, non riconsegnerà una casa distrutta o rifarà abbracciare un proprio caro detenuto a vita. Non cancellerà le immagini traumatiche impresse nella mente.
Siamo di fronte a generazioni intere che vivono in condizioni disumane e crescono con vissuti ed esperienze di violenza e morte.
La dottoressa Jabr assiste le persone vittime della violenza dell’esercito israeliano e ci ha raccontato che i sintomi che manifestano i pazienti, come la depressione, l’insonnia, i pensieri paranoici, l’isolamento sociale, i problemi locutori, i dolori articolari e dermatologici sorgono in concomitanza con eventi traumatici: un pestaggio efferato, lunghi periodi di carcerazione, interrogatori con diversi tipi tortura, vedere il cranio del proprio figlio spaccato o non poter celebrare il lutto di un parente.
Molt3 bambin3 palestinesi vengono prelevati nel cuore della notte, bendati e portati in luoghi ignoti dove sono esposti a condizioni termiche estreme, torturati psicologicamente e fisicamente, sono insultati, vengono minacciate le loro famiglie, vengono spaventati dai cani dell’esercito israeliano e in alcuni casi stuprati e umiliati sessualmente. Il loro sviluppo come adolescenti viene compromesso, la loro intimità danneggiata e le loro reti affettive sono distrutte.
Per questo motivo pensiamo che i moti di ribellione o le pratiche di resistenza da parte dei civili e della popolazione oppressa siano legittimi e rispettabili, e che da un punto di vista della salute mentale siano anzi una risposta comprensibile al senso di umiliazione e impotenza imposto da condizioni di vita invivibili e inaccettabili.
“Vivere oppressi e sottomessi all’ingiustizia è incompatibile con la salute psicologica. La resistenza non è soltanto un diritto e un dovere, ma anche un rimedio per gli oppressi. Indipendentemente da ogni opzione strategica o pragmatica, la nostra resistenza rimane l’espressione e l’affermazione della nostra dignità umana”.
Jabr ci mette in guardia anche sulle conseguenze politiche del trauma dell’occupazione israeliana: la polarizzazione della società, la corruzione della classe dirigente, il fanatismo dei partiti che cercano fedeli e annullano la critica interna, il dilagare della violenza, gli abusi di potere e la ricerca di vendetta e la tendenza all’autodistruzione che caratterizzano la élite palestinese. Per questo non vanno confusi gli ingiustificabili attacchi contro la popolazione civile israeliana con la legittima resistenza armata che ha abbattuto il muro dell’apartheid, confiscato mezzi militari dell’esercito e liberato territori occupati dai coloni.
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