Contatto quest’anno è alla sua seconda edizione. È un’iniziativa che nasce da un desiderio espresso durante una delle nostre riunioni. Tra l’altro quel giorno eravamo in poche di noi, un po’ spaesate, senza ordine del giorno, riflessioni a ruota libera da cui è emersa una voglia forte di fare un benefit in cui fare festa tuttɜ insieme, dopo due anni di pandemia in cui non ci è stato possibile condividere sguardi, abbracci, discussioni (se non online su zoom o peggio nel contenitore alienante e distruttivo di twitter o altre piattaforme commerciali). Ovviamente questo fare festa ha assunto il carattere anche del confronto politico. E l’idea che la salute mentale potesse essere un argomento trasversale a tante altre questioni, per cui da anni stiamo combattendo, è risultato un meraviglioso pretesto per tirare in mezzo più collettivi, soggettività politiche, gruppi e persone possibile.
Contatto, al di là di essere un momento di confronto politico e di approfondimento in cui diverse realtà possano portare la loro visione, le loro pratiche politiche nell’approccio a questo mondo faticoso e affaticato, dovrebbe essere lo spazio di creazione di contatti tra di noi, di possibilità di conoscerci, entrare in confidenza, creare reti nuove per originare cose nuove, insieme. Fare insieme, non solo parlare. Provare a rendere possibili degli spazi inconsueti, inaspettati. Per uscire dalla sensazione frustrante di essere, sì abitanti di queste città e territori, ma per lo più osservatori (inconsapevoli o consapevoli alcunɜ di noi) ma impotenti e quindi molto frustrati, ridotti ad una sola dimensione quella del lavorare e poi consumare. E con la sensazione che non ci sia possibilità né di creare più niente di nuovo né, come ci spiega bene Mark Fisher, che se fosse ancora in vita sarebbe stato uno dei nostri ospiti, a pensare di poter sfuggire alla gabbia capitalistica che sta facendo morire tutto. Allora anziché la disillusione e il cinismo del “tanto è così e niente si può fare” almeno parliamone insieme in spazi liberi e condivisi. Che poi cinismo e disillusione non appartengono a ‘noi’ qui presenti (in realtà forse a qualcun sì comprensibilmente) per lo più militanti e attivistɜ da una vita. Forse quello su cui onestamente potremmo fare autocritica e autoanalisi tra noi è il fatto di perderci sempre in mille rivoli autoreferenziali e di essere aggrappati a storie identitarie granitiche (poi a Milano non ne parliamo) che fanno sì che se invitiamo una non viene l’altro, se ci vediamo in quel posto non si può invitare quella realtà o quell’altra. Insomma una tale rottura di palle che la Basaglia, allergica alle tendenze egemoniche e narcisistiche tipiche anche purtroppo dei nostri giri, ha deciso più volte, e spesso pure ingenuamente, di procedere spontaneamente. Senza però mai perdere la sua radicalità e autonomia. Una delle nostre convinzioni è quella che, come sostiene Franca Ongaro, la radicalità è andare alla radice delle questioni. Lo si fa supportando e accogliendo chi soffre, lo si deve fare per radicalmente cambiare un sistema che non funziona. E senza paura del conflitto che è alla base di ogni cambiamento. Vale per lo sviluppo evolutivo, vale per i processi rivoluzionari.
Perché mettere al centro del nostro ragionamento il capitalismo e direi pure il discorso del privilegio e quindi della coscienza di classe necessaria? Perché come sperimentiamo ogni giorno, e ancora tanto di più chi sta ai margini, chi è in condizioni di povertà, chi è costretto a migrare, a fare lavori sottopagati, chi esce dalle normatività imposte, chi non rimane nei binari della produttività, del consumo e si mostra nel suo orgoglioso degrado improduttivo, il capitalismo ti impone una condizione di vita talmente disfunzionale e contraria a qualunque sostenibilità che ci sta facendo ammalare, ci fa stare male, ci schiaccia e ammazza. Al di là della condizione soggettiva e delle storie personali, comunque siamo immersɜ in un sistema disfunzionale. Per cui la scaltra mossa di attribuire ai singoli individui la responsabilità di non stare bene psicologicamente è la classica vigliaccata che avviene anche per il discorso dell’inquinamento, del consumo dell’acqua e dell’energia, dell’alimentazione sostenibile, enfatizzare le responsabilità individuali per confondere le idee e nascondere l’origine dei problemi.
Per cui se non guadagni e non fai carriera è perché non ti dai da fare abbastanza, se non trovi lavoro è perché non hai voglia di lavorare, se non riesci a pagarti una casa a Milano o altre città non c’è problema te ne vai fuori e fai la pendolare. Se non ti puoi permettere gli studi universitari ci sarà sempre qualcuno più ricco di te che pagherà la retta della università privata. Insomma se non ce la fai è colpa tua. E se appena prendi parola per opporti a questa logica, e lo fai come non piace ai cani da guardia dello Stato e di questo sistema economico, ti tolgono il fiato, ti tolgono la vita o la libertà, ancor prima di fiatare.
Quindi patologizzare significa mistificare e togliere lo sguardo politico alle questioni che riguardano la sofferenza mentale. Infantilizzare le rivendicazioni studentesche, per esempio, che chiedono cura, attenzione e rispetto nel rapportarsi alle persone che studiano, e lo sappiamo bene grazie a studenti con cui tante volte la Basaglia si è confrontata, vuol dire ridicolizzare e sminuire il portato politico e le analisi approfondite che in questi anni sono state portate avanti nelle scuole.
Siccome andiamo ripetendo da varie parti, da angolature diverse, e da diverso tempo le stesse cose sarebbe bello ricominciare a dare risposte sinergiche. Senza rinunciare alle nostre storie, ma avendo il coraggio di sacrificare un pezzettino della nostra identità senza avere paura di stravolgerla, ché noi si rimane noi anche quando ci si mescola, anzi se ne esce più forti e arricchitɜ.
Proviamo a confluire in qualcosa di condiviso, in una lotta condivisa. Magari trovando obiettivi, politici e concreti, condivisi. Spesso in anni passati le volte che c’abbiamo provato non è poi andata così bene. E sappiamo grazie ai nostri trascorsi e alle nostre competenze, che non siamo le prime a lanciare questi inviti, però forse di interpretazioni e analisi né abbiamo già fatte in abbondanza, proviamo ad agire qualcosa. Un sassolino nell’ingranaggio.
Se riuscissimo a liberare spazi fisici e mentali e passare tempo insieme, fuori dagli imperativi e i finti bisogni indotti, compresi ovviamente gli smartphone, una bella fregatura, il tappeto volante di Le Mille e Una Notte. Perché è così che ci sta annichilendo il sistema neoliberista. Ci tengono buonɜ inducendoci addiction (per i diversi studiosi comportamentisti che ci lavorano da decenni non è difficile sapere come). Ci illudono grazie all’interconnettività di essere senza limiti e onnipotenti, e nel frattempo ci ritroviamo circondatɜ da divieti e restrizioni, ovunque, negli spazi reali e nel tempo a disposizione nostra, che poi non esiste perché è completamente sussunto dal capitale. È tutto normato, regolato, vincolato. Tutto. Ormai non ci si può più sedere per terra e mangiare un panino. Scambiamo la possibilità di soddisfare i nostri bisogni di consumo, indotti dalla propaganda capitalistica, con l’essere liberɜ. E questo porta a frustrazione e senso di impotenza da cui poi deriva la rabbia che proviamo tuttɜ e che rimane senza oggetto a cui rivolgerla, se non noi stessɜ o chi è messo peggio di noi.
Proviamo, impresa non facile per chi è costretto a campare lavorando ininterrottamente e ritrovandosi senza energie per altro, ma proviamo a sottrarre tempo al capitale e dedicarlo alla cura di un possibile e nuovo soggetto collettivo. Superando traumi vecchi e più recenti sconfitte.
E come? Proviamo a fare un parallelo con ciò che accade nel processo terapeutico, nella stanza di analisi tra una terapeuta e la persona che porta la sua sofferenza, il suo spaesamento, i suoi traumi. Esiste una fase di ascolto, di accoglimento del punto di vista e del vissuto della persona che soffre. Della sua storia. Insieme si cerca di ripercorrere la narrazione di come sono andate le cose e ricostruire ciò che sembra mancare. Ma poi è necessario reintegrare le parti dissociate, durante l’esperienza traumatica, nel sé della persona e permettere, attraverso nuove esperienze vissute nella relazione terapeutica, di creare nuovi pensieri e nuove risposte. Non si può solo contro-reagire a questo stato di cose, dobbiamo mettere in atto qualcosa di nuovo, e in modo collettivo e diffuso, altrimenti staremo in questa condizione di stallo e soffocamento finché non finisce tutto. E la risposta nuova deve essere il più ampia possibile, deve superare i confini. Dobbiamo provare ad abbattere le barriere e i confini che ci impongono in tutti sensi, provare a essere più visionari possibile, sperimentare stati diversi di coscienza, e condividere esperienze concrete ed emotive nuove. Non avere paura del fallimento, perché se procediamo collettivamente e convintɜ che possa veramente esserci qualcosa di nuovo, possiamo superare questo momento di stallo e farcela.
L’auspicio della Brigata Basaglia è riuscire a far circolare i vari interventi facilitando lo scambio e cercando di contenere i tempi dei diversi interventi in modo da dare spazio a tutte e tutti di intervenire. È sempre stato un modo per gestire anche i nostri momenti di discussione, perché risultassero il più rispettosi e orizzontali possibile. Quindi cercheremo di fare lo stesso anche in questi giorni.
Ci vediamo Sabato 13 maggio per continuare a riflettere su queste tematiche oltrepassando le barriere e i confini