Uno degli aspetti più belli e significativi del nostro lavoro è incontrarci con altre realtà sul territorio e creare un dialogo. Con l’associazione di Forlì Città Aperta abbiamo lavorato insieme su un intervento di supporto durante l’esperienza dell’alluvione. Da questo incontro è nata un’intervista doppia che racconta chi siamo e quello che abbiamo fatto, nella speranza che possa essere un’occasione di scambio e divulgazione di pratiche.
BB: Come nasce Forlì Città Aperta? Quando avete sentito il desiderio di occuparvi di salute mentale e come si intreccia con la vostra storia di mobilitazione/attivismo sul territorio? Quali sono le realtà con cui si è interfacciata e come si sono sviluppate queste relazioni di rete?
FCA: Forlì Città Aperta è un’associazione di volontariato attiva sul territorio di Forlì dal 2011 organizzata secondo un approccio orizzontale. Nasce da un piccolo gruppo di persone animate dall’intento di raccogliere dati sull’immigrazione, di fare controinformazione e di approfondire i temi legati all’immigrazione, portando avanti l’idea di cultura antirazzista e antifascista. Da anni collabora con la scuola di italiano per stranieri Penny Wirton e ha attivato uno sportello documenti rivolto alle persone che hanno bisogno di supporto nel processo burocratico per la richiesta di permesso di soggiorno. Tra i percorsi realizzati e ancora in corso vi è la battaglia politica per il diritto all’abitare, l’organizzazione di incontri culturali di sensibilizzazione sui temi del razzismo, antifascismo, salute mentale e un percorso di decostruzione della bianchezza. Inoltre, quest’anno è stata inaugurata, insieme al collettivo di genere Rea, la biblioteca intersezionale dedicata alla partigiana forlivese Iris Versari, un luogo che vuole diventare punto di incontro e di scambio politico e culturale. Il desiderio di occuparsi di salute mentale nasce dalla consapevolezza del ruolo del sistema organizzativo sociale nel generare disagio psichico. Da qui è nata l’esigenza di creare una discussione e condivisione di sapere collettivo.
Questa esigenza si concretizza nel 2022 attraverso un progetto chiamato stranaMENTE, organizzato con alcune realtà universitarie in occasione della Giornata della Salute Mentale. In particolare, è stato coinvolto Udu Forlì, che ha presentato i risultati della campagna nazionale “Chiedimi come sto” portata avanti dall’Udu. Lo sviluppo della rete di relazioni si è articolato a partire dal coinvolgimento di realtà dal basso che potessero offrire prospettive provenienti da spaccati sociali eterogenei e da vissuti personali. In questa occasione è stata allestita una mostra dell’artista cesenate Claudia Farnedi e si è tenuto un ciclo di incontri con ospiti Ariman Scriba (divulgatrice sul legame tra disagio psichico e razzismo) e le testata radiofonica Psicoradio (dove lavorano persone in cura presso i Servizi di salute mentale di Bologna) e Brigata Basaglia. Nel 2023 è stato ripreso questo percorso con particolare attenzione rivolta alle pratiche di cura collettiva in situazioni emergenziali e alla decolonizzazione della salute mentale. La scelta di trattare la prima tematica è sorta in relazione all’alluvione che ha colpito la Romagna lo scorso maggio e i danni psicologici che ha causato. Nel corso dei mesi c’è stata molta attenzione alla narrativa della ripartenza e della resilienza, ma scarsa considerazione delle implicazioni del disastro a livello di salute mentale. La seconda tematica è stata scelta in continuità con il percorso di decostruzione della bianchezza e di approccio critico all’eurocentrismo che si riflette anche nelle pratiche di cura per il benessere psicologico e nelle forme di violenza istituzionale che hanno un impatto sulla salute mentale delle persone migranti e delle seconde generazioni. Il primo incontro ha avuto come ospiti la Brigata Basaglia insieme a Ester Chicco e Alfredo Mela dell’associazione Psicologi del Mondo, la quale si occupa di psicologia di comunità e dialoghi interculturali. Per il secondo incontro sono stati invitati l’etnopsicologo Filippo Casadei, Ariman Scriba e la psicoterapeuta Valentina Stirone che lavora in ambito multiculturale con persone in situazione di grave marginalità. Sono state due occasioni di approfondimento critico circa il legame tra salute mentale, responsabilità istituzionali e sociali che hanno portato a riflettere sul concetto di resistenza collettiva e politica come antidoto all’isolamento sociale.
FCA: Come nasce la Brigata Basaglia? Come si coniuga la psicologia dell’emergenza con l’autogestione della salute mentale comunitaria?
BB: Come Brigata Basaglia nasciamo nella primavera 2020 a Milano, durante il picco dell’emergenza COVID-19. Il primo nucleo della Brigata Basaglia nasce da un piccolo gruppo ristretto di psicologhe che lavoravano presso l’ambulatorio popolare di Via dei Transiti a Milano. I volontari che all’epoca si stavano occupando della consegna di pacchi con beni alimentari e presidi medici si sono accorti del problema dell’isolamento sociale, l’ansia, la depressione, la preoccupazione per le persone ospedalizzate e in generale dei sintomi psicologici e le emozioni negative che provavano le persone durante la pandemia. Da questa presa di coscienza è nata l’idea di creare una task force specifica. I servizi di salute mentale durante la prima ondata di contagi, infatti, sono stati chiusi lasciando improvvisamente isolate le persone che li frequentavano e si è verificata una crisi di salute mentale a cui rispondere, una crisi che coinvolgeva sia chi aveva dei bisogni di salute mentale pregressi, sia chi li manifestava in concomitanza con l’emergenza. In pochi giorni il primo nucleo basagliano ha studiato i protocolli internazionali di psicologia dell’emergenza (che si riferivano prettamente a calamità naturali come alluvioni, terremoti, uragani, catastrofi umanitarie) e li ha adattati alla situazione del COVID-19, totalmente nuova, creando un centralino che potesse incanalare i bisogni in modalità simili a quelle di un Pronto Soccorso, utilizzando i codici di urgenza (questa è una cosa che continuiamo a fare a distanza di più di tre anni). È stata fatta una chiamata pubblica, aperta a tutti: psicologhe, professionisti del settore e non esperti. Hanno risposto più di un centinaio di persone di cui ne sono state selezionate circa 25 e da lì siamo partiti. Da più di tre anni ci incontriamo una volta alla settimana per discutere delle nostre attività partendo dai problemi delle persone che ci chiamano al centralino. Durante la nostra riunione settimanale ci prendiamo anche cura della crescita del nostro gruppo e parliamo delle nostre esperienze pratiche ed emotive di attivismo. A un certo punto, infatti, ci siamo accorte che le chiamate che ci arrivavano non erano legate esclusivamente al Covid-19, ma anche a problematiche sociali (questioni abitative, lavorative, di status legale, dipendenze, violenza domestica…) che non si potevano risolvere solo ed esclusivamente con una presa in carico individuale concentrata sul malessere psicologico del singolo. Abbiamo quindi iniziato a costruire una rete di organizzazioni e competenze che potesse dare risposte complesse a bisogni complessi. Questa complessità ci ha portato a collaborare con diversi gruppi, ad esempio abbiamo creato uno sportello ad hoc per studenti liceali, siamo intervenuti per supportare collettivi politici che attraversavano crisi e conflitti, siamo andate nelle scuole occupate e nelle università. Si sono formati così altri sottogruppi della Brigata che ancora oggi si occupano di tematiche specifiche come la ricerca e la formazione. Un altro esempio importante viene dalla Brigata Basaglia di Firenze, che ha aperto uno sportello di ascolto in collaborazione con il collettivo di fabbrica GKN. La Brigata Basaglia Firenze, inoltre, organizza pranzi sociali mensili e si dedica ad altre attività di supporto e culturali rivolte al territorio, tra cui un cineforum a tema salute mentale che permette alla comunità di riunirsi e discutere in uno spazio sicuro. Anche il nostro gruppo Pavese, nato relativamente di recente, si occupa di offrire laboratori esperienziali per la cittadinanza e sta portando avanti un importante discorso pubblico sul tema del carcere e dei CPR. Un’altra iniziativa fondamentale è il nostro festival, Contatto, che riflette la nostra idea di cura del gruppo, del territorio in cui viviamo e delle persone che a noi si rivolgono. Durante il festival organizziamo tavoli tematici di discussione, workshop, spettacoli e incontri dove cerchiamo di mettere in contatto realtà e persone con cui lavoriamo tutto l’anno e con cui vogliamo fare rete nella nostra quotidianità. L’esperienza della rete è, infatti, il nucleo del nostro lavoro: da sole non si riesce a rispondere a tutti i bisogni psicologici e sociali. L’essere umano non è un’isola, e nemmeno il nostro gruppo lo è, abbiamo bisogno di creare ponti, collaborare e scambiarci informazioni. Con il festival Contatto ampliamo la nostra rete e portiamo avanti la nostra idea di lotta sul territorio. Il nostro rapporto con Forlì Città Aperta è nato in quest’ottica. L’emergenza non è solo con il Covid-19, ma è tutti i giorni, basti pensare agli incidenti, alle malattie, i licenziamenti, le alluvioni, gli sfratti, gli arresti e le violenze. La crisi è strutturale e profondamente radicata nella società per cui il nostro lavoro è quotidiano.
BB: Cosa vi ha spinto a contattare la Brigata Basaglia e cosa vi ha convinto e interessato dell’idea dei gruppi di parola? In che modo vi è sembrato che possano essere stati utile?
FCA: L’alluvione di maggio 2023 in Emilia-Romagna ha colpito anche Forlì, sconvolgendo completamente la quotidianità della città. Da subito Forlì Città Aperta si è attivata sul campo, dapprima per aiutare a spalare e pochi giorni dopo allestendo un punto logistico di smistamento di volontari e di materiale. Con il passare delle settimane il contesto emergenziale è divenuto quotidianità; a distanza di un mese abbiamo sentito la necessità di chiedere aiuto e supporto psicologico per continuare a far fronte alle crescenti difficoltà e pressioni, da un lato dovute al peso emotivo della situazione, dall’altro dovute al totale senso di vuoto e abbandono istituzionale. Brigata Basaglia è stata la prima realtà a cui abbiamo pensato, avendo già avuto modo di conoscersi precedentemente e vista la stima nei confronti del vostro taglio operativo. L’idea dei gruppi di parola è stata particolarmente d’aiuto nel creare uno spazio dove potersi sfogare, decomprimere e metabolizzare le proprie sensazioni collettivamente. Si è creato uno spazio sicuro senza giudizio all’interno del quale ci si è sentiti supportati e meno soli nel provare alcuni stati d’animo. Alle volte chi aveva difficoltà a identificare le proprie emozioni si poteva ritrovare in quelle altrui. In altri momenti è emerso come da una stessa situazione, diverse persone potessero provare emozioni completamente opposte ma complementari, creando un equilibrio all’interno del gruppo. È stato utile per verbalizzare le proprie emozioni, primo passo per riconoscerle, ed è servito per ricaricarsi mentalmente, per riuscire ad andare avanti con il lavoro emotivamente provante che stavamo facendo e per creare una dimensione di gruppo coesa e interdipendente. È stato uno strumento per far emergere il senso di frustrazione, di sconforto, di speranza e rabbia in maniera condivisa, trasformando gli stati d’animo in un impulso per pensare a nuovi modi per mobilitarsi.
FCA: In quali casi è consigliabile utilizzare la modalità del ‘gruppo di parola’ e quali benefici può apportare a una comunità?
Quest’estate abbiamo accompagnato FCA nei gruppi di parola, che preferiamo chiamare gruppi di auto mutuo aiuto perché il nostro aiuto è orientato all’autonomia del gruppo che ci chiede un supporto iniziale. Si tratta infatti di creare uno spazio con regole decise dal gruppo stesso, come stabilire un ordine del giorno, dei tempi da rispettare, ma soprattutto un atteggiamento di non giudizio. È importante concentrarsi su quest’ultimo elemento perché è tutto fuorché semplice, capita spesso nei gruppi di attivismo o nei gruppi politici che si creino, anche con tutte le buone intenzioni, delle modalità moralistiche o rigide che ostacolano la libera espressione delle emozioni, passaggio necessario perché il gruppo stesso impari a gestirle. La libera espressione delle emozioni è fondamentale sotto vari aspetti. Dal punto di vista neurofisiologico verbalizzare un’emozione evita che venga somatizzata e quindi previene i sintomi psicosomatici come l’abbassamento delle difese immunitarie, i disturbi del sonno e i problemi gastrointestinali. Ci sono, quindi, delle basi scientifiche che ci dicono che nominare le emozioni è importante. I benefici non sono solo individuali ma anche di gruppo. Ad esempio, se sono frustrato, e la frustrazione porta ad aggressività, rischio di attaccare chi mi sta accanto senza esserne consapevole. Prendere coscienza della mia frustrazione mi può aiutare a gestire l’aggressività senza scaricarla sul gruppo. La stessa cosa vale per il senso di colpa: sapere se è presente in noi il senso di colpa, e da dove proviene, ci permette di riconoscere se alcune azioni che portiamo avanti (ad esempio lavorare troppo) siano condizionate dalla percezione di non fare abbastanza. Saper gestire il senso di colpa ci può proteggere dall’esaurimento e lo stress. Poter esprimere che siamo stanche è un altro risultato importante. Spesso, infatti, davanti all’enormità degli eventi, la fatica che facciamo sembra vana. Condividere questa sensazione ci aiuta a non farci prendere dallo sconforto e ci permette di focalizzarci sugli obiettivi raggiunti o sui punti da poter migliorare. Infine, la condivisione apporta un beneficio sociale, perché ci permette di capire che stiamo attraversando qualcosa che è storicamente rilevante e socialmente condiviso, non riguarda solo il nostro malessere personale. Comprendere le ragioni sistemiche della sofferenza psichica e come queste si accumulano nelle nostre vite ci permette di comprendere il senso dell’azione collettiva senza lasciarci andare alla disperazione e all’impotenza individuale che spesso accompagna le crisi. Le emergenze si innestano in un contesto già critico, in un territorio precario, saperlo ci aiuta a risignificare una crisi esistenziale o un conflitto del nostro gruppo come parte di un’esperienza sociale e comunitaria.
BB: Qual è il passaggio che lega il vostro intervento durante l’emergenza dell’alluvione alla mobilitazione politica e di lotta per i diritti di una comunità?
FCA: L’intervento durante l’emergenza alluvione è stato politico sin dal primo momento, quando vi è stata un’affluenza di volontari dalla città, e da fuori, per aiutare le zone più pesantemente colpite. Si è trattato di un movimento dal basso spontaneo che si è sostituito alla lenta e confusionaria azione amministrativa, creando un tessuto sociale compatto e solidale. Con il passare del tempo, visti gli interventi più sporadici dei volontari sul campo e il cambio di esigenze della comunità, il tessuto sociale formatosi è divenuto strumento per farsi forza l’uno con l’altro e per agire facendo pressione all’amministrazione. Forlì Città Aperta ha contribuito al fianco delle persone alluvionate ad organizzare delle assemblee cittadine nei quartieri colpiti denominate “Assemblea Cittadina Oltre l’Alluvione” per creare uno spazio in cui le persone potessero parlare, confrontarsi e cercare assieme di farsi sentire dalle istituzioni. A partire da questi momenti si è riusciti a raccogliere le principali esigenze ed è stato stilato e presentato all’amministrazione un documento con le richieste dei cittadini. Di fronte a un rifiuto di confronto aperto e di discussione si è passati all’organizzazione di diverse manifestazioni nei mesi a venire che hanno raggiunto centinaia di persone. Con la forte spinta dal basso si è arrivati alla formazione e al riconoscimento istituzionale del “Comitato Unico Vittime del Fango”, promotore dei diritti e delle esigenze cittadine. Se da un lato questo risultato è stato significativo e d’impatto, meritano particolare attenzione i legami forti e le forme di sinergia instaurate all’interno di alcuni quartieri alluvionati. Ciò ha permesso una forma di resistenza e di supporto reciproco sia rispetto all’evento drammatico in sé che al successivo vuoto amministrativo, dimostrando come alla base di una ricostruzione vi sia l’agire collettivo e solidale. In questo senso, dal nostro punto di vista gli interventi in situazioni emergenziali dovrebbero essere sotto forma di accompagnamento alla comunità attraverso strumenti di supporto che le persone possano rendere proprie, ricoprendo un ruolo di mediazione qualora fosse necessario. Fondamentale è la presenza continuativa, coerente e quindi credibile su quel territorio per creare rapporti di fiducia, senza i quali qualunque intervento risulterebbe qualcosa fatto per le persone dall’alto, anziché con le persone dal basso.
FCA: Qual è il passaggio che lega la cura della salute mentale alla mobilitazione politica e di lotta per i diritti di una comunità?
BB: Dato che si parla molto di resilienza, si può partire da una nozione teorica, che come tutte le nozioni teoriche e accademiche non va presa come se fossero le tavole della legge, ma va discussa insieme. In questo caso parliamo dei pilastri della resilienza comunitaria di fronte ai disastri. Questi pilastri sono quegli elementi protettivi che fanno sì che un disastro abbia un impatto minore (meno danni e meno vittime). Tra questi ci sono: avere una struttura sociale coesa; l’onestà governativa; l’identità culturale e sociale (senso di appartenenza); l’autostima collettiva; l’umorismo sociale (la capacità di sdrammatizzare) e la preparazione storico-culturale. Quest’ultima significa avere una memoria storica, non dimenticare cosa è successo e poter far tesoro delle strategie e degli errori del passato, contando su una memoria collettiva che può e deve essere messa in condivisione. Esistono anche gli anti-pilastri, quei fattori che fanno sì che le crisi lascino strascichi più dannosi e traumatici. Tra questi possiamo citare: la povertà (economica, politica, sociale e morale); la dipendenza economica della comunità dall’esterno; l’isolamento sociale; la stigmatizzazione delle vittime; il fatalismo (“non si poteva fare niente”); l’autoritarismo; la corruzione; gli atteggiamenti passivi; il conformismo e il pessimismo. Come è evidente, molti di questi anti-pilastri sono presenti nella nostra società. La resilienza è importante perché ci permette di attutire il colpo, di uscire rafforzati dalla crisi. Se ci limitiamo però, solo alla resilienza, cioè se le persone e le comunità si limitano a adattarsi alle crisi si rischia, a lungo termine, di finire schiacciati e impotenti nell’infinito tentativo di adattarsi a qualsiasi catastrofe. È importante quindi introdurre il tema della resistenza, cioè, pensare che è necessario non solo modificare noi stessi ma anche le condizioni sociali all’interno delle quali le crisi si verificano. Una grande lezione ci è stata data da Samah Jabr, psichiatra palestinese e coordinatrice dei servizi di salute mentale in Cisgiordania, che abbiamo ospitato durante il festival Contatto 2023. Jabr ci ha parlato del Sumud, un concetto della cultura popolare palestinese che significa sia resilienza che resistenza. Jabr lavora con persone torturate, arrestate, persone giovanissime, tra cui molti bambini. Al trauma derivante da queste esperienze noi possiamo anche dare una diagnosi, un nome, un’etichetta clinica ma come si può, ci ha detto Jabr, parlare di salute mentale quando il contesto di vita delle persone palestinesi è una quotidianità fatta di bombardamenti, violenza e discriminazione? Andare alle radici del malessere psicologico significa riconoscere in primis queste patologie strutturali e poi agire per modificare il contesto sociale.