Samah Jabr è la presidente dell’Unità di Salute Mentale del Ministero della Salute palestinese. Il suo lavoro e il suo attivismo mettono in luce come l’occupazione israeliana sia un intreccio di un problema politico e di questioni legate alla salute mentale. L’intervento di Samah Jabr al nostro festival Contatto: pratiche di resistenza e liberazione, svoltosi lo scorso maggio presso la Cascina Torchiera, ci fornisce uno scorcio del trauma collettivo e generazionale dell’occupazione israeliana, della resistenza palestinese nell’organizzare i propri servizi di salute e dell’importanza della solidarietà internazionale nel creare reti di complicità e supporto. In un contesto globale in cui le istituzioni accademiche e mediatiche silenziano e ricattano le voci dissidenti, abbiamo ritenuto imprescindibile riportare le parole di Jabr, le quali ci aiutano a capire gli eventi delle ultime settimane a Gaza come parte di un genocidio iniziato nel 1948 e che chiedono la liberazione della Palestina.
Samah Jabr: Grazie a tutte le compagne della Brigata Basaglia per avermi invitato qui e grazie anche a Marita (traduttrice di Samah n.d.t), di Sensibili alle Foglie, per avermi dato questa opportunità di trasmettere la mia prospettiva anche ad un pubblico italiano. Questo è particolarmente importante perché la realtà coloniale pone una problematica cruciale, perché al di fuori della Palestina è difficile produrre e diffondere le nostre conoscenze e i nostri saperi; è difficile pubblicare articoli accademici; è difficile partecipare nel contesto accademico per diversi motivi, tra cui una mancanza di fondi e di denaro. Questo tipo di strumento, ovvero incontrarsi di persona, avere delle assemblee, discutere a voce è uno strumento più adatto per i popoli colonizzati, perché possono venire, possono presentarsi, possono parlare in prima persona. Sono nata a Gerusalemme, ma ufficialmente non sono una cittadina di nessun posto del mondo, poiché sono residente in un paese occupato e non ho alcuna residenza né cittadinanza. Sui miei documenti sono definita “senza nazionalità” e altri documenti si riferiscono a me come proveniente dalla Giordania. Sono di Gerusalemme e sono il capo dei servizi di salute mentale della West Bank (Cisgiordania) e faccio volontariato con delle colleghe di Gaza. Ero a Gaza la settimana scorsa e ho lasciato Gaza un giorno prima dell’ultimo bombardamento. Sto facendo questo discorso geografico per spiegare la frammentazione territoriale del popolo palestinese e la creazione di diverse determinanti politiche della salute mentale. A Gaza, ad esempio, ci sono problemi estremi di approvvigionamento del cibo, di povertà e di disoccupazione. Gaza è sotto occupazione da sessant’anni e un ragazzino di 15 anni ha vissuto quattro guerre a Gaza. Presso la West Bank abbiamo una falsa forma di autorità palestinese, poiché l’occupazione occupa più del 60% del territorio. Per spiegare perchè questo è un determinante politico delle questioni di salute mentale è opportuno spiegare che ogni volta che l’occupazione avanza o che un territorio viene occupato c’è un abbandono scolastico del 60% degli adolescenti palestinesi perché lungo il cammino per andare a scuola vengono attaccati dalle truppe israeliane. A Gerusalemme c’è un intervento ingegneristico sulla distribuzione della popolazione per spingere sempre più al di fuori i palestinesi da quella che è ritenuta la capitale unificante della nazione israeliana. Attraversando i confini di questa frammentazione dobbiamo capirne le specificità e i suoi perché in modo da poter intervenire in queste comunità. La psichiatria mainstream afferma che il trauma è del singolo e che dobbiamo affrontare il disturbo post-traumatico a livello individuale. Di sicuro ci sono palestinesi con traumi individuali e con disturbo da stress post-traumatico, ma il trauma più comune è quello collettivo ai danni di tutta la comunità palestinese. Il trauma può danneggiare il nostro tessuto neuronale e in una comunità danneggia il tessuto sociale, crea sfiducia, invidia, competizione e l’interiorizzazione dell’inferiorità. La psichiatria convenzionale non ci dà gli strumenti necessari per intervenire in questo tipo di condizioni. Stiamo cercando di svilupparli noi con un lavoro collettivo, tra colleghe e pazienti. Quando proviamo a spiegare queste cose e a usare questo linguaggio con le organizzazioni internazionali di salute mentale che intervengono in Palestina, dicono che non si dovrebbe parlare di politica quando si parla di salute mentale e di psichiatria, e che loro possono trattare soltanto le persone con disturbo post-traumatico. L’anno scorso ero qui in Italia per il summit sulla salute mentale mondiale dove erano presenti grandi organizzazioni per la salute mentale. La conferenza è iniziata con Olena Zelenska che ha parlato del trauma del popolo ucraino e ha ringraziato Israele per il loro supporto. Mentre questo discorso politico è stato accolto non viene accettato quando degli stessi argomenti parlano le palestinesi. Vorrei condividere ancora due idee con voi: la prima, come sia facile patologizzare e usare la psichiatria per sminuire la realtà politica palestinese. Ad esempio, una delle atrocità più recenti è stata lasciar morire Khader Adnan che faceva uno sciopero della fame nelle carceri israeliane, e un famoso giornalista israeliano ha dichiarato che aveva commesso un suicidio. Qui la psichiatria è stata usata per sminuire la resistenza e la causa politica per cui Khader aveva iniziato lo sciopero della fame. Per lasciarvi con una nota positiva, vorrei parlarvi di un’iniziativa nata in Palestina e promossa da esperte di salute mentale: abbiamo creato la rete Palestine Global Mental Health Network. In solidarietà con questa iniziativa sono nati diversi gruppi con lo stesso nome in altri paesi: nel Regno Unito, in USA, in Irlanda e in Sud Africa. Questo è un modo per le esperte di salute mentale di essere solidali e per riconoscere il trauma collettivo e le sfide per la salute mentale nel nostro contesto e per supportarci senza essere complici della psichiatria mainstream.
Dal pubblico: vorrei che Samah ci parlasse un po’ di questo problema che lei chiama l’inferiorizzazione rispetto all’oppressore, cioè questo problema del palestinese che si sente, dopo tanti anni di occupazione, di riconoscere addirittura agli israeliani una forma di superiorità rispetto anche ad aspetti della vita quotidiana: lei scrive nei suoi libri ad esempio che se uno ha bisogno di un medico, preferisce un medico israeliano. Vorrei che ci parlasse un po’ più a fondo di questa interiorizzazione dell’oppresso e del riconoscere una superiorità all’oppressore.
Samah Jabr: Ne parlo in diversi articoli, innanzitutto quando ho iniziato a lavorare in Palestina ho notato che spesso le persone mi parlavano in ebraico, alcune si vantavano della possibilità di comprare un oggetto in un centro commerciale israeliano o di rivolgersi ad una parrucchiera israeliana. Penso che l’identificazione con l’aggressore e l’internalizzazione dell’inferiorità siano sintomi che sorgono quando le persone pensano che, se assomiglieranno agli israeliani, saranno esentati dalle aggressioni degli stessi, perché assomiglieranno a loro e non sembreranno oppositori. Questo non è comune a tutte le palestinesi, ma ci sono alcune palestinesi che si comportano in questa maniera. Una modalità estrema di internalizzazione è quella di chi accetta di essere collaboratore di Israele. In Palestina, va poi aggiunto, c’è una grandissima richiesta di servizi di salute mentale ma le professioniste di salute mentale sono molto poche. La Banca Mondiale ci classifica come paese a reddito medio-basso e quindi dobbiamo fare di tutto per venire incontro ai bisogni della popolazione con un budget molto ridotto. Quello che facciamo è istruire tante figure della comunità a fornire diversi servizi di salute mentale, anche le figure religiose sono incluse in questo processo affinché abbiano le capacità per intervenire con persone che si presentano con manifestazioni fisiche di malessere, per riconoscere i sintomi somatici del malessere psicologico.
Dal pubblico: Visto che si è parlato di trauma e anche di approccio non specialistico al supporto delle persone, quali sono le principali attività di supporto alle persone,? Che genere di pratiche propongono? Se sono di gruppo, se è un’attività di condivisione, se hanno trovato qualche approccio da questo punto di vista…
Samah Jabr: Gran parte del mio lavoro è dedicato a sviluppare delle strategie nazionali per la salute mentale. Un esempio è la Strategia nazionale palestinese per la prevenzione dei suicidi. Una premessa, va detto che abbiamo molte altre strategie come questa, per esempio riuniamo le lavoratrici della salute mentale che hanno esperienza in determinati campi e che sono in grado di produrre delle strategie contestuali alla situazione e ai bisogni delle palestinesi. In questo modo possono anche rifiutare le imposizioni delle organizzazioni estere internazionali di salute mentale, soprattutto le organizzazioni che danno dei fondi e che quindi mettono le condizioni. Hanno attivato diversi gruppi locali perché le ONG estere spesso percepiscono ciò che è sofferenza sociale unicamente come sofferenza mentale, soprattutto rispetto ad alcuni gruppi di prigionieri politici. Soprattutto i gruppi di donne che hanno una sofferenza specifica, perché si fanno tante domande sui loro sentimenti e sulla loro possibile maternità quando iniziano l’attivismo e quando poi finiscono in carcere. Un altro gruppo è quello degli adolescenti, perché lo sviluppo viene interrotto quando si finisce in un carcere israeliano e anche quando io giovanissimi palestinesi escono dal carcere non possono semplicemente tornare alla loro infanzia come se niente fosse, e questo ha un impatto sulla la loro crescita e sulla loro possibilità di diventare adulti “funzionali”. Un ultimo gruppo sono poi i genitori di questi minori incarcerati perché internalizzano un sentimento di incapacità genitoriale dato che sono completamente impotenti di fronte all’arresto, alla scarcerazione, rispetto a quello che possono fare per i propri figli. Va poi ricordato l’aspetto somatico di queste esperienze: il dolore nel petto, la mancanza di sonno, la mancanza di libido. Sono delle sofferenze sociali causate da una violenza che è politica. Rispetto alle nostre attività specifiche, per esempio, educhiamo gli allenatori sportivi per renderli in grado di fornire servizi di salute mentale e insegniamo ad ex prigionieri politici come aiutare persone che sono in carcere o nuovi scarcerati. Infine, facciamo degli interventi nei pronto soccorso e abbiamo delle strategie di intervento di prevenzione del suicidio, soprattutto per quanto riguardale le lavoratrici della salute. Ad esempio, un medico che ha pensieri suicidi mi ha raccontato la sua storia e ne sono rimasta molto colpita: nel maggio 2021, dopo l’ennesimo bombardamento israeliano, dozzine di persone sono arrivate contemporaneamente nella emergency room. Questo medico teneva in mano due penne, una verde e una rossa, lui svolgeva il triage e con queste penne determinava chi veniva lasciato morire e chi veniva salvato; si è quindi rivolto ad un infermiere e gli ha chiesto di non toccare una donna ma questa gli ha afferrato la gamba – le persone erano stese sul pavimento – e gli ha detto “per favore, non lasciarmi morire”. La stessa donna è poi morta. Il medico mi ha detto che lui la sogna la notte, ha degli incubi ogni notte e non riesce a sopportarlo. Ogni volta che ci sono situazioni come quella di Gaza si trova inabile a svolgere il proprio lavoro. Il patogeno non è “tra le orecchie” di queste persone, ma è al di fuori: è la violenza politica, la dinamica e la disparità di potere sono ciò che creano la malattia e la sofferenza.
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